Nel panorama del giornalismo contemporaneo, spesso si insegna agli aspiranti cronisti a distaccarsi dalle emozioni personali e dalle incertezze, mantenendo un approccio oggettivo e imparziale. Domenico Iannacone, tuttavia, rappresenta un’eccezione a questa regola consolidata, infrangendola per sondare le questioni più intime e complesse dell’esistenza umana, come la precarietà della mente, l’enigma della vita e della morte, e la cura come atto essenziale per ogni essere vivente.
Le nuove puntate di “Che ci faccio qui”, trasmesse su Rai3 e realizzate da Ruvido Produzioni, portano Iannacone a Catanzaro, presso il Centro Diurno dell’Associazione Ra.Gi., creata da Elena Sodano. Qui, viene esplorato un concetto di cura che supera l’assistenza tradizionale, puntando sulla relazione e sull’ascolto per ridare dignità, anche quando il tempo sembra perdere significato.
Nella serie, Iannacone affronta argomenti complessi come la perdita di memoria, l’Alzheimer, il Parkinson e l’isolamento, spesso affrontando il dolore e la privazione attraverso un linguaggio non verbale fatto di contatti e gesti affettuosi, come carezze e massaggi. Avvicinandosi a individui che hanno smarrito il contatto con la realtà, Iannacone cerca di immergersi nel loro mondo interiore, comprendendo profondamente ciò che vivono.
Per Iannacone, l’empatia diviene il mezzo per penetrare negli stati d’animo del suo interlocutore, che talvolta comunica attraverso gesti ed espressioni non verbali. Parallelamente, la trasmissione ripercorre la storia agghiacciante del manicomio di Girifalco, un luogo di segregazione per “anime turbate”.
“Che ci faccio qui” si configura non solo come un esempio di grande giornalismo, ma soprattutto come una lezione di umanità. L’approccio di Iannacone suggerisce che, più che la conoscenza e la professionalità, è il risveglio delle emozioni profonde a condurre verso una rappresentazione più autentica della verità umana.