I registi belgi Lumière sono nuovamente in competizione al Festival di Cannes con la loro ultima opera, “Giovani Madri”. Sono noti tra gli appassionati come i frerès, un soprannome che evoca, in modo suggestivo, i monaci de “Il Nome della Rosa”. Entrambi vincitori di due Palme d’oro con “Rosetta” nel 1999 e “L’enfant” nel 2005, i Lumière appartengono a un esclusivo gruppo di cineasti che include anche autori del calibro di Coppola, Loach e Haneke. Hanno raccolto numerosi riconoscimenti attraverso le edizioni del festival, consolidando il loro status nel mondo lussuoso del cinema internazionale.

“Giovani Madri” si presenta come un’opera universale, narrando le difficoltà quotidiane di cinque giovani donne – Jessica, Perla, Julie, Ariane e Naima. Queste adolescenti, ospitate in una casa rifugio per madri, lottano per costruire un futuro migliore per sé stesse e i propri figli. Interpretando sé stesse sullo schermo, Babette Verbeek, Elsa Houben, Janaina Halloy Fokan, Lucie Laruelle e Samia Hilmi portano avanti un cinema che esplora il reale e si pone dalla parte dei più vulnerabili.

Jean-Pierre e Luc Lumière, che hanno trascorso la loro giovinezza nella grigia periferia industriale di Seraing, in Vallonia, dove le nuvole e la povertà sembrano infinite, si sono immersi in una casa materna per comprendere meglio l’argomento. Qui hanno trovato un ambiente fatto di accoglienza, costituito da educatrici, psicologhe e giovani madri, molte delle quali ancora minorenni. Tuttavia, dietro queste ragazze si celano storie di disagio con genitori problematici e partner irresponsabili. Alcune lottano con il dilemma dell’aborto o della rinuncia al neonato e convivono con sentimenti di solitudine, disperazione e rabbia, alimentati da una storia familiare segnata da problemi, compreso l’alcolismo.

Nonostante il carico emotivo, i Lumière sono riusciti a infondere nel film una certa leggerezza. Il racconto non collega strettamente le vite delle protagoniste, ma ciascuna affronta il proprio rapporto con la maternità. Condividono la condizione di emarginate, alcune manifestano un precoce desiderio di maternità, e si discute anche l’arduo tema dell’abbandono. Questa “sorellanza inconsapevole” emerge attraverso la loro lotta per liberarsi del passato grazie ai figli.

Durante la lavorazione, i registi hanno scelto un approccio libero, lavorando in modo indipendente sulle cinque trame per poi intrecciarle, evitando schemi narrativi tipici delle serie televisive che conducono a forti momenti di suspense. Questo ha permesso di mantenere una naturale fluidità nel racconto. Nei film dei Lumière, i protagonisti cercano sempre una via di riscatto sociale. I dialoghi sono essenziali, seguendo quasi impercettibilmente il flusso degli eventi, mentre il mondo esterno fa sentire i suoi rumori. Ammettono il rischio di far sparire i personaggi nella dolcezza della trama. Il sistema di adozione? “Funziona solo con criteri corretti”, affermano.

Anche tecnicamente ci sono stati meno ciak, ricercando leggermente nello stile piuttosto che una perfezione opprimente, con la speranza che il film mantenga un po’ di quella freschezza distintiva. La presenza dei bambini si è rivelata essenziale, così come quella di psicologhe ed educatrici, figure che offrono un supporto oltre i confini istituzionali. Questo nuovo film rappresenta fedelmente le dinamiche reali di quelle case materne, puntando a toccare il cuore degli spettatori con una rappresentazione autentica e toccante della vita di queste giovani madri.

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