Nel maggio scorso, Donald Trump celebrava i suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca, annunciando la conclusione di ben 200 accordi commerciali. Tuttavia, ad oggi, solo tre trattative possono essere considerate concluse, seppur con riserve: un accordo fragile con la Gran Bretagna, una tregua temporanea con la Cina e un’intesa poco solida con il Vietnam, rischio di naufragare.
Deluso dalla sua incapacità di instaurare i commerci promessi e incoraggiato dall’assenza di forti reazioni negative dei mercati finanziari alle sue recenti politiche sui dazi, il presidente Trump ha rilanciato la sua offensiva commerciale in modo deciso, senza risparmiare nemmeno gli alleati. Fattori congiunturali lo hanno ulteriormente incoraggiato: incassi da tariffe in crescita, con introiti che hanno superato i 100 miliardi di dollari fin dall’inizio dell’anno. Secondo il segretario al Tesoro Scott Bessent, tali incassi potrebbero raggiungere i 300 miliardi entro dicembre. Sebbene questi numeri non siano sufficienti a coprire l’enorme deficit pubblico, rappresentano comunque un significativo aumento delle entrate. Nel contempo, l’inflazione paventata non si è ancora manifestata, probabilmente a causa del calo della domanda derivante da un rallentamento economico.
Tralasciando le avvertenze degli economisti sul pericolo dei dazi per l’economia globale, Trump respinge queste preoccupazioni, confidando negli sgravi fiscali come veicolo di una crescita economica nazionale che potrebbe superare il 6% annuo, una previsione considerata inverosimile anche tra i repubblicani di Wall Street.
Nonostante sia stato temporaneamente persuaso a moderare le sue iniziative nei confronti dell’Europa a seguito di un crollo dei mercati finanziari e una perdita di fiducia globale nel dollaro, Trump è tornato a sfoderare un approccio aggressivo. Recentemente, ha intimato agli europei di non rispondere ai dazi con ritorsioni, minacciando un ulteriore raddoppio al 60%. L’Europa si era finora limitata ad azioni contenute, evitando di dichiarare apertamente rappresaglie, nonostante fossero stati predisposti potenziali pacchetti di penalizzazioni.
Mentre Bruxelles si muoveva verso un accordo, offrendo di escludere le imprese americane dalla tassazione delle multinazionali operanti nell’UE, gli unici a ricevere un trattamento di rispetto da parte di Trump sono stati cinesi e britannici. Xi Jinping, in particolare, può esercitare un’influenza significativa grazie alla possibilità di limitare l’accesso alle terre rare, cruciali per l’industria tecnologica.
In questo contesto, i negoziatori europei si sono impegnati a incrementare l’importazione di gas e armi dagli Stati Uniti, prendendo spunto dall’approccio britannico che ha ottenuto esenzioni settoriali. Tuttavia, per Trump, concedere esenzioni simili a europei, giapponesi e coreani, che esportano milioni di veicoli negli USA, equivarrebbe a rinunciare a un pilastro della sua strategia commerciale.
Di fronte alle divisioni interne del mercato unico europeo, dove si profilano interessi divergenti tra stati membri, Trump intravede opportunità per mettere in difficoltà gli avversari, sfruttando la mancanza di unità economica, il che obbliga a negoziare sulla base di compromessi, piuttosto che di forza contrattuale condivisa.