e mi intimò di consegnargli il cellulare. Esausta di quella continua sfiducia, rifiutai e lui reagì con una violenza mai vista prima. Mi colpì con schiaffi, mi afferrò per i capelli e mi gettò sul letto, perdendo il controllo. Si gettò sopra di me stringendomi le mani al collo, e in quel momento mi mancava l’aria. Solo quando la sua presa si allentò e arrivò un altro schiaffo, riuscii a sgusciare via, cadendo a terra. Quel tragico giorno, percepì realmente il pericolo imminente. Incominciai a vivere con una paura costante di stare al suo fianco, ma nonostante tutto, tentai di dargli un’ultima possibilità, finché l’ennesimo episodio di violenza fisica non mi fece aprire gli occhi. Un giorno, fuori di sé, iniziò a insultarmi, a sputarmi in faccia e a sbattermi la testa, fino a che persi conoscenza, e mi ritrovai su un’ambulanza.
È stato in quel letto d’ospedale, stordita e dolorante, che ho scelto di denunciarlo. La scelta non è stata per niente semplice. Dieci anni fa, la violenza sulle donne non era riconosciuta adeguatamente, né dalla società né dal sistema giudiziario. A Vittoria, la mia piccola cittadina in provincia di Ragusa, il pregiudizio era forte, influenzando il senso di vergogna per aver reso pubbliche questioni che andavano risolte in ambito familiare. Il mio ex iniziò a diffondere voci calunniose: che fossi pazza, che appartenessi a una setta satanica e che avessi abbandonato la famiglia. Molti gli credettero, cercò anche di insinuare dubbi in nostro figlio, ma le ferite sul mio corpo erano una testimonianza evidente.
Il sostegno psicologico purtroppo è mancato. Dopo un breve incontro con una psicologa al mio fianco in ospedale, mi sono ritrovata sola, a contare sul solo supporto della mia famiglia per affrontare il lungo percorso di ricostruzione. Anche un’associazione mi suggerì di ritornare a casa per cogliere mio marito in flagranza di reato, ma fortunatamente non seguì il consiglio. Ho trovato, successivamente, una valida avvocata che mi ha assistita. Sebbene il mio ex non abbia mai passato un giorno in carcere, in quanto il reato si estinse per prescrizione, è stato obbligato a pagare le spese legali del procedimento. La lentezza della giustizia in Italia scoraggia molte vittime. Occorre una maggior applicazione delle leggi e delle tutele esistenti. Come accennato recentemente dal Ministero della Giustizia, il braccialetto elettronico è un mero avviso e le donne si vedono costrette a trovare riparo altrove, il che è inaccettabile.
La musica è stata la mia salvatrice. Era il mio rifugio e, per un periodo, ho pensato di abbandonarla. Non avevo più forza, solo dolore. Le emozioni sembravano svanire mentre suonavo, ma alla fine, tornata al pianoforte, ho trovato il modo di esprimere tutto quello che avevo represso dentro di me. Questa esperienza ha insegnato che ognuna di noi può riappropriarsi della propria vita e che le cicatrici, fisiche o emotive, diventano il simbolo di rinascita. Giuseppina Torre, con coraggio, traduce la sua storia in musica e parole, invitando tutte le donne che hanno vissuto esperienze di violenza a contemplare la forza che risiede dentro loro stesse. Il 25 maggio, a Milano, questo racconto di rinascita sarà condiviso con il pubblico, testimoniando la forza della musica e delle parole come strumento di guarigione e rigenerazione.