La domanda che colpisce Joan Baez arriva immancabilmente, come un orologio svizzero. Ridendo, si rammarica del fatto che si faccia menzione a Bob Dylan, una figura presente nelle sue battaglie passate, specialmente quella di liberarsi dall’etichetta di “ex di Dylan”, una battaglia tra le più dure affrontate dalla cantante. Sebbene siano passati sessant’anni dalla loro relazione appassionata e artistica, Baez sembra essersi ormai rassegnata a convivere con questa eredità. Parlando del film “A Complete Unknown” di James Mangold, esprime apprezzamento anche se confessa che con Dylan non ci sono stati contatti riguardo al progetto. Tuttavia, non si prospetta un’eventuale mossa da parte sua per ristabilire un dialogo con l’artista.

Joan Baez è giunta a Milano con la grazia dei suoi ottantaquattro anni, adornata dagli immancabili braccialetti gitani, per lanciare il suo nuovo libro “Quando vedi mia madre, chiedile di ballare,” edito in Italia da La Nave di Teseo e parte delle iniziative della Milanesiana, curata da Elisabetta Sgarbi. Durante uno scambio con Sandro Veronesi, l’artista ha rivelato come molte delle sue poesie siano state scritte quasi come fossero dettate da una voce interiore. Diagnosticata con un disturbo dissociativo dell’identità, Baez riflette su come questo libro rappresenti una parte più intima di sé rispetto alle sue battaglie politiche usuali.

La sua voce, ancora in grado di intonare perfettamente i brani come “One in a Million” di Janis Ian, non sarà più ascoltata dal vivo, visti gli sforzi richiesti dai tour. Tuttavia, la scrittura rimane per lei un rifugio, un mezzo attraverso cui resistere e non dimenticare. Tra le pagine del libro, si ritrova anche la sua prospettiva sulla pellicola “A Complete Unknown,” e sulla rappresentazione di lei affidata a Monica Barbaro. E riflette anche verso altre icone del passato come Jimi Hendrix, al quale dedica versi che evocano il suo leggendario talento manifestato durante l’alba di Woodstock.

La dolorosa esperienza personale della Baez si intreccia con le sue poesie, rievocando un’infanzia segnata da abusi che aveva rimosso fino a quando la volontà di ricordare non la vinse. Attraverso discipline rigorose e un successivo percorso terapeutico, la cantora narra una storia di guarigione e resistenza.

Non mancano nel libro riflessioni personali, legate agli affetti familiari, al padre Albert Baez e alla sua scelta di rifiutare il Progetto Manhattan, in nome della non violenza e della disobbedienza civile, principi trasmessi a Joan. La rilevanza di tali valori, per lei, non è sfumata: in una società che vivendo tempi oscuri, i continui soprusi vengono percepiti in tempo reale. La situazione inevitabilmente peggiorata durante il secondo mandato presidenziale di Donald Trump, che Baez definisce “un incubo sadico,” e dove l’empatia è ormai una virtù dimenticata.

In un tempo in cui la musica potrebbe ancora rivoluzionare il mondo, Baez nota un vuoto: mancano inni capaci di unire le persone, come “We Shall Overcome”. Tuttavia, non perde la speranza di una nuova “Imagine” o “Blowin’ in the Wind”. Nel frattempo, continua a dedicarsi alla scrittura di poesie, parte di un poema civile destinato ai social, con toni critici verso figure potenti come Elon Musk.

I suoi ricordi la riportano anche in Italia, alle collaborazioni storiche con Furio Colombo ed Ennio Morricone, con cui realizzò “Here’s to You” per il film su Sacco e Vanzetti. Infine, mentre riflette sugli scenari attuali di conflitto in luoghi come l’Ucraina e Gaza, riconosce il perdurare di una dinamica di potere oppressiva e non vede una facile soluzione all’orizzonte. Tuttavia, il suo impegno resiste, rappresentato nel simbolico ritratto di Zelensky accanto a quello di Martin Luther King, un altare di resistenza e speranza per tempi migliori.

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