L’antropologo Adriano Favole, specializzato in studi politici, ambientali e insulari, riveste il ruolo di Professore presso l’Università di Torino. Autore di numerose opere, tra cui l’ultimo libro intitolato “La via selvatica. Storie di umani e non umani” edito da Laterza, Favole si è dedicato per anni a ricerche approfondite, focalizzandosi in modo particolare sull’Oceania e su temi quali la mobilità, l’accoglienza e l’interdipendenza tra gli esseri umani. Quest’anno, domenica 25 maggio, sarà ospite del Festival di antropologia culturale Dialoghi sull’Uomo di Pistoia, partecipando all’evento presso il Teatro Manzoni con un intervento intitolato “Antichi e nuovi nomadismi”. Questo appuntamento esplorerà il viaggio come parte integrante dell’esistenza umana e le somiglianze tra società tradizionalmente nomadi e i nuovi nomadi della modernità globale.
L’espansione della specie umana sul nostro pianeta è una storia di nomadismo innato, strettamente legata alla capacità dell’uomo di adattarsi a diversi ambienti culturali e geografici. Dall’origine in Africa orientale, in poche migliaia di anni, l’umanità ha colonizzato vaste regioni della Terra, dimostrando una considerevole capacità di evolversi culturalmente. Questo processo ha permesso alla specie di sopravvivere in habitat variabili, dai deserti ai ghiacci polari.
Le antiche società nomadi dell’Oceania offrono oggi un insegnamento prezioso. Essendo vissute in territori con risorse scarse, hanno sviluppato culture basate sull’equilibrio e sul rispetto delle risorse naturali. Le loro esperienze in un mondo di risorse limitate sono oggi di grande attualità, non per replicare i loro modelli, ma per ispirare un ripensamento dei nostri stili di vita.
Favole identifica nel “partire” e “accogliere” due caratteristiche essenziali delle culture umane, che si rispecchiano nei nomadismi contemporanei. Nell’antico contesto oceanico, l’identità umana non era frammentata in gruppi distinti come accade spesso oggi. La regione era una rete di società interconnesse che occupavano progressivamente le isole del Pacifico, fondata su un principio cardine: il diritto di approdo. Questo diritto garantiva ai viaggiatori la possibilità di trovare rifugio in tempi di crisi, un sistema che si fondava sul reciproco rispetto della partenza e dell’accoglienza.
L’assenza di una nozione di “stranierità” tra i popoli dell’Oceania ci insegna sull’ospitalità. Nelle lingue polinesiane non esisteva una parola equivalente allo “straniero” moderno; al suo posto, termini come “mataa pule” – “lo sguardo di un capo” – rappresentavano una visione del navigatore che scruta l’orizzonte in cerca di un approdo. Il concetto di alterità non era assimilato a una separazione drastica, ma vedeva l’altro principalmente come un umano.
Nel mondo odierno, dove viaggiare è un diritto e gli spostamenti sono più agevoli, il tema dell’accoglienza resta un aspetto complesso. I diritti di movimento non sono equamente distribuiti: mentre alcuni passaporti offrono accesso a molti paesi, altri ne limitano severamente le possibilità. Questa disparità nella libertà di movimento sottolinea la necessità di rivedere l’approccio globale ai viaggi e all’accoglienza, immaginando un documento di viaggio universale che garantisca pari opportunità a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro origine.